sulla riva del fiume con willie peyote - intervista
Introduzione
Dopo un mese dall'uscita del suo ultimo disco, "Sulla riva del fiume", abbiamo incontrato Willie Peyote con l'intento di scoprire chi è davvero i pensieri dell’artista dietro le sue rime. Un confronto diretto sui temi e le riflessioni nascoste dietro ai testi, passando anche per l'esperienza vissuta sul palco del Festival di Sanremo. Abbiamo parlato anche dei suoi prossimi appuntamenti live, anticipati recentemente sui social, che lo vedranno nuovamente protagonista sui palchi italiani.
Willie Peyote, foto di Chiara Morelli
intervista a willie peyote
"Seduto qui sulla riva del fiume a dirsi addio. Vedo i cadaveri passare e aspetto passi pure il mio." Nel music business di oggi, dove tutto gira velocissimo e un artista può essere al top e poi scomparire, cosa pensi serva per evitare di vedere il proprio "cadavere" passare?
Non ho una risposta perché non c'è una risposta, credo che nessuno ce l'abbia, nemmeno Cremonini, secondo me, nemmeno Jovanotti, nel senso che appunto cambia tutto in fretta e nessuno può prevedere cosa succederà.
Secondo me la chiave è sempre quella di cercare di essere coerenti con sé stessi e mantenere la voglia di fare le cose, di salire sul palco, di scrivere e anche di mettersi alla prova. Secondo me l'unica chiave è quella, se perdi la voglia di fare non ha più senso. Non ha neanche senso aspettare il cadavere, tanto sei già morto fondamentalmente. (…) Quando ho visto lavorare da vicino gli artisti che ti ho nominato prima, capisci che la passione che hanno per il loro lavoro è palese e si rinnova costantemente. Quindi credo che siano lì perché mantengono la voglia di fare queste cose qui come quando hanno iniziato. Poi il mercato va dove vuole lui, è ciclico, poi torna e poi cambia. Oggi non puoi prevedere cosa tra le scelte che fai ti pagherà o cosa no. E quindi tanto vale cercare di fare quello che ti fa stare bene, come diceva Caparezza, tra l'altro, solo citazioni oggi.
Hai ripreso il verso "Se sbaglio, è colpa mia" dalla canzone In teoria. Rispetto al 2005, quando il brano era presente nel tuo EP Appersonal, cosa è cambiato per te in questo concetto?
Il paradosso è che non è cambiato niente. Cioè, sono cambiato io tante volte nel mezzo, però quel concetto lì del senso di colpa in generale è rimasto. Che poi è un po' una sensazione dovuta, credo,all'educazione che ho ricevuto in tenera età, l'imprinting religioso. Il cristianismo in generale ha questa forma di senso di colpa implicito. Quindi credo che nasca da lì, però non è cambiato. Sono cambiate un sacco di altre cose, è cambiato il mio modo di usare la voce, è cambiata la mia voce nel frattempo per le sigarette e tutto il resto. Però in realtà quel concetto lì del senso di colpa è rimasto uguale, ce l'ho ancora... Ci convivo meglio, ho 40 anni, all'epoca ne avevo 20, la differenza è sostanziale. Il porsi il problema di avere la responsabilità degli errori che si commettono, quello è rimasto uguale. Secondo me è comunque positivo. Se qualcosa non va bene la prima domanda che mi faccio è dove ho sbagliato io, non sono uno che tenda a dare colpe agli altri, ecco.
In Giorgia nel paese che si meraviglia dici: "Non sono l’unico, guarda che pubblico, sono il tuo pungiball.”
Mi sembra di capire che il pungiball siano i cittadini. Credi che oggi l’opinione pubblica abbia ancora un peso reale o siamo spettatori senza potere?
No, l'opinione pubblica ha un grande peso. È il come ci facciamo influenzare che in realtà dovrebbe essere al centro della nostra attenzione. Non solo in Italia, in giro per il mondo. Abbiamo visto cosa è successo in Germania, abbiamo visto cosa sta succedendo in America. Ci facciamo influenzare moltissimo da cose che sottovalutiamo come forme di influenza. Non sono i politici a indirizzare le elezioni; sono podcaster, sono personaggi del web come Andrew Tate, come Joe Rogan. Secondo me è cambiato il modo di influenzare il pensiero dell'elettorato, e siamo ancora fermi alle vecchie ideologie, ma neanche, proprio ai vecchi mezzi di informazione, sottovalutiamo quelli nuovi. La frase vuol dire che fondamentalmente un elettorato che vota, convinto che la destra gli farà un favore, è un elettorato che si pone a mo’ di pungiball per i governatori, perché non è mai stato vero da cent'anni a questa parte, che la destra faccia il gioco dei più poveri, non è mai successo. Quindi è proprio controintuitivo votare a destra quando c'è una crisi economica, eppure c'è da 100 anni e succede puntualmente.
Willie Peyote, foto di Chiara Morelli
In Cowboy affermi: "Per quanto sei ribelle morirai democristiano"—una frase che suona come una sentenza. Pensi che alla fine sia impossibile sfuggire ai compromessi, o c’è ancora un modo per restare fedeli ai propri ideali?
Sì, questa è una citazione, non era una frase mia, si diceva: Si morirà tutti democristiani. Quando c'era la democrazia cristiana, si usava dirlo come per dire “nasci incendiario e muori pompiere” Il fatto che, invecchiando, poi, in qualche modo, accetti i compromessi.
Scendere ad un compromesso non vuol dire per forza rinnegare i propri ideali, dipende sempre quali sono i compromessi. Secondo me, sì, bisogna scendere a compromessi nella vita in generale. È un compromesso anche, in una conversazione con una persona che non conosci, cercare di non pestargli i piedi piuttosto che arrivare a uno scontro immediatamente, se si hanno idee diverse. Quindi il compromesso non è sbagliato di per sé, dipende da dove poni il limite dei compromessi ai quali sei disposto. Secondo me si può trovare una quadra nel mezzo, cioè accettare che i lavori hanno delle loro regole, il mondo ha delle regole che magari non sono quelle che piacciono a te, bisogna capire fino a che punto sei disposto a rinunciare a te stesso. C'è chi rinuncia del tutto perché preferisce la fama o il denaro e c'è chi invece riesce a trovare un punto d'incontro e mantenere vivi i propri ideali, anche cambia il modo di esporli. Quindi no, non credo che sia sbagliato accettare i compromessi… credo sia... neanche sbagliato, però una scelta che a me non piace, o meglio che io non farei, quella di rinunciare del tutto a ciò che si pensa per un guadagno economico, però non discuto la scelta altrui.
In La legge di Murphy affermi: "Vista la realtà, c’è una possibilità che vada tutto sempre peggio." Il tuo è un vero pessimismo sul futuro o, nonostante tutto, intravedi ancora qualche possibilità di cambiamento?
No, sono piuttosto pessimista, ma questo non vuol dire che non si debba comunque scherzarci su o meglio cercare delle risposte. Non credo che riusciremo a interrompere il processo che ci porterà verso l'estinzione dovuto al collasso del pianeta. Dopodiché non vedo perché questo debba essere una giustificazione per smettere di provarci. In generale, il fatto che io sia pessimista non è mai stato un freno per provare a fare meglio. Il pessimismo è anche un gioco, è divertente, mi piace prendere in giro la cosa, però questo non vuol dire che debba diventare un freno o una scusa per non fare niente, non è mai stata quella l’intenzione. Però sì, sono abbastanza pessimista, ma credo che lo siamo tutti fondamentalmente. Chi non lo è forse non si è informato abbastanza.
Riguardo a Sanremo. Tu hai trattato temi sociali con ironia in entrambe le partecipazioni. Rispetto alla tua prima esperienza a Sanremo, come sei cambiato tu e il tuo approccio al Festival?
Sono due cose tanto diverse. Bisogna partire dal presupposto che quattro anni fa si arrivava in un momento in cui il mondo era diverso da oggi, ed era diverso da come eravamo abituati a pensarlo. Quindi eravamo tutti un po' in confusione per una serie di motivi. Io arrivavo da un percorso che si era interrotto bruscamente sul più bello e non si sapeva quando si sarebbe dovuto riprendere. Insomma, era un momento talmente assurdo che non si può fare il paragone tra quello e nient'altro. Penso che poi era il festival in cui io non potevo uscire dall'hotel, non avevo contatti con nessuno, non ho neanche conosciuto gli altri concorrenti praticamente perché non c'era modo proprio anche solo di incrociarsi nel backstage. Io credo di aver vissuto la vera esperienza quest'anno, ed è stata un'esperienza che mi è piaciuta al netto della difficoltà. Porto a casa un bagaglio sia di esperienza lavorativa che di esperienza umana. Ci sono arrivato però dopo diversi anni. Quattro anni fa ero più incazzato, perché era un momento in cui, secondo me, eravamo tutti un po' più incazzati perché era un periodo con un sacco di contraddizioni.
Oggi invece il mio approccio è stato contrario, un po’ perché l’avevo già fatto, e secondo me fare due volte la stessa cosa non paga. Oggi che invece, in una situazione in cui si polarizzano in fretta le idee e l’idea maggiormente diffusa è un’idea che non mi trova d’accordo, fare muro contro muro non aveva senso, quindi ho preferito giocare e prenderla con più leggerezza. L’obiettivo era quello di creare effettivamente un confronto, mentre nel 2021 c’era un tentativo di rottura, di sottolineare le contraddizioni in maniera aspra. Quindi si, l’approccio è stato totalmente diverso, a partire dalla messa in scena. Quattro anni fa non mi avrebbero permesso di portare due persone sul palco più Luca Ravenna, più tutto il mio staff perché non si poteva letteralmente fare. Tutto questo è stato figlio del fatto che io quattro anni fa avevo comunque le mani legate da una serie di scelte. La differenza è tanta anche per questi motivi, però devo dire che mi sono divertito molto quest’anno.
Willie Peyote, foto di Chiara Morelli
Stiamo arrivando alla fine dell’intervista, volevo chiederti: stai lavorando a un tour? Puoi anticiparci qualcosa?
Certo! Stiamo lavorando a un tour! Ci sarà sicuramente una data a Torino, perché quest’anno ricorre il decimo anniversario di Educazione Sabauda e visto che “Sulla riva del fiume” è il disco che completa la trilogia Sabauda stiamo organizzando un bell’evento. Arriveremo poi in tutta Italia. Ovviamente con la band, perché questo disco, come anche i precedenti, è un disco che nasce con musicisti che hanno lavorato alla scrittura, all’arrangiamento e alle registrazioni, e quindi non potrei prescindere dall’avere con me i ragazzi che mi accompagnano di solito. Casualmente alcuni di loro erano anche con me a Sanremo, come Dario Bestonzo che è sia tastierista della band che direttore d’orchestra e si è occupato dell’arrangiamento dei brani che ho portato al festival. Stefano Genta nel ruolo di produttore era a fare il fonico a Sanremo. Cerco sempre di portarmi dietro le persone che lavorano assieme a me per i brani perché mi permettono di avere una visione tonda di ciò che facciamo.
Ultima domanda. Vista la collaborazione con Ditonellapiaga, quali altri emergenti ti sentiresti di consigliare?
Sicuramente mi sento di consigliare due emergenti che sono però già conosciuti nel panorama, come Marco Castello ed Ele A, per fare due nomi che mi piacciono moltissimo ma sono già comunque esposti. Sono due con i quali mi piacerebbe avere a che fare anche musicalmente. Marco lo sa già, Ele A non ancora, ma succederà. Meno conosciuti, posso dirti un altro gruppo con cui ho collaborato: i Queen of Saba. Secondo me hanno un bellissimo approccio, sono molto contemporanei e artistici, facendo anche della militanza nella musica che fanno. Infine su Torino posso dirti Michael Sorriso nel rap, che è appena uscito con un featuring nel disco di Egreen. Invece per quanto riguarda il panorama alternativo ti dico PUGNI, che ha fatto tutti i cori del disco, quindi ci tengo a fare il suo nome.
In conclusione
Chiudiamo questa intervista con la certezza che Willie Peyote rappresenti una voce necessaria nel panorama italiano. Rimane la sensazione di aver conosciuto non solo un musicista, ma soprattutto una persona sincera, capace di parlare apertamente della propria visione del mondo, con lo spirito critico che forse, negli ultimi anni, abbiamo un po’ perso.